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Vinchio è il mio nido

16/02/1998

Vinchio è il mio nido

Davide Lajolo - Antologia

L’antologia rappresenta un percorso autobiografico dello scrittore tratto dai suoi libri. Diamo qui qualche pagina significativa. A cura di Laurana Lajolo, ADL 1998

Il mio nido

Vinchio è stato il mio nido. Le radici, mio padre e mia madre devono avermele piantate ben profonde in questa terra collinosa, se non è passato giorno nel corso della mia vita in cui la mente non sia ritornata al pesco sul bricco di San Michele, ai prati delle Settefiglie, ai filari conchigliosi della vigna di Montedelmare. Anche quando ero in guerra, undici anni affannati tra spari e imboscate, non è passato un solo giorno senza tornare col pensiero al bricco dei Saraceni, alla valletta della morte.

Avevo imparato dall'infanzia che lì c'erano stati guerra e morti e quel ricordo s'accendeva fervido tra le cannonate, sotto i mitragliamenti aerei. La notte, facendo gli occhi nel buio, rivedevo primule e mughetti trepidi che facevano tappeto in primavera sulle pendici del bosco di castagni.

Radici profonde, ancestrali, maliarde, persino morbose. Ogni partenza mi addolorava, come segnasse un addio senza ritorno sia quand'era per il collegio o per i fronti di guerra. Lasciavo il cuore e i sentimenti al paese. Come potessi respirare libero solo tra quella polvere, in quell'aria di piante amiche, nella linea dritta seguendo i filari delle vigne, esattamente come soltanto in questi posti potessi spaziare con la fantasia da un colle all'altro, e alzarmi in volo.

Non è più stato così in nessun altro luogo del mondo: non nel cielo di Parigi né in quello di Atene, non a Pechino né a Samarcanda, non a Marrakesch né a Beirut, mai più.

 

Gli undici gelsi

La mia casa al paese: lo stanzone dalla volta bassa e dalle pareti larghe, nel quale trovavamo posto tre fratelli, per dormire nei due letti in ferro battuto e le lamiere dipinte, e poi tutto attorno i sacchi del grano maturato nell'unico campo o tra i filari delle due vigne. Dovevano bastare alla famiglia per il pane dell'annata.

E sopra di noi, al di sopra dei letti e sui fianchi delle pareti le stuoie fatte con piccole canne secche, che ai primi giorni, parevano soffocarci, chiudere il respiro. Le stuoie, sopra le quali centinaia e centinaia di piccoli bruchi, i bachi da seta divoravano lentamente le foglie di gelso.

Le andavamo a raccogliere nelle ceste di vimini lungo tutta la giornata. Ci arrampicavamo sui gelsi gridando a festa. Spesso mangiavamo le more, che spuntavano tra le foglie verdissime. Le more nere come l'inchiostro. Io ero il più goloso e dopo pochi minuti avevo le mani nere, la bocca nera, tutto il volto impiastricciato di nero, come uno spazzacamino.

Poi avanti con le foglie, affrettandoci, per riempire ognuno la propria cesta. Dovevamo fare due viaggi e doppio raccolto, perché le foglie bastassero a sfamare i bigatti, che dovevano mangiare di continuo per crescere in fretta.

Quando ci buttavamo stanchi sui letti, i miei due fratelli s'addormentavano quasi subito, perché, essendo più alti, erano destinati a fatiche più dure. Anch'io ero stanco, ma non riuscivo ad addormentarmi. Le prime notti avevo paura che i bachi scendessero sul letto e divorassero anche me. Il rumore delle loro piccole mascelle s'ingrandiva e sentivo il cuore battermi sempre più forte finché cadevo nel sonno. Mi svegliavo poco dopo di soprassalto, terrorizzato. Non osavo parlare: lentamente mi rialzavo dal letto fino a infilare la testa tra una stuoia e l'altra, per rendermi conto che tutti i bigatti fossero là e nessuno si spingesse fuori dalle canne della stuoia.

Ma, dopo le prime notti, quel ruminare lento e costante dei bachi diveniva come una musica noiosa, sempre uguale, ma indispensabile. E mi prendeva l'ansia del miracolo. Di svegliarmi cioè una mattina in cui i bachi, diventati crisalidi, volassero sopra le stuoie come farfalle e lungo i piccoli rami, che mia madre andava aggiustando a castello nei momenti di sosta dei lavori più pesanti. Finché le farfalle si sarebbero chiuse nei bozzoli d'oro.

 

Il bricco dei cinquant'anni

Cinquant'anni uno sull'altro non fanno ancora montagna, ma formano una bella collina, un bricco quasi.

Dall'alto di questo bricco si può già avere un orizzonte e, a sapere guardare con calma, in silenzio, quello che sta avanti e quello che sta indietro, c'è da farsi un'idea. Un'idea su tante cose e tanti ripensamenti sulle esperienze passate; si riesce allora, tenendo i piedi saldi sulla terra del bricco, anche a guardare nel futuro, senza ripetere i desideri e i sogni che crescevano nella fantasia da ragazzo, le notti di S. Lorenzo, quando le stelle ci parevano così vicine da caderci nei capelli. Intanto, se uno ha i piedi per terra, se conosce cioè il terreno sul quale è appoggiato, capirà come ha impiegato gli anni, come quelli sui quali il bricco si è formato.

Sono di quelli che si riconoscono tra le colline, che si scoprono dinanzi alla loro impassibilità, che si rispettano in quell'aria, perché sono finalmente sinceri con se stessi.

L'aria della collina e il cielo più vicino e gli alberi senza parole e le cose piccole e lontane e gli uomini, i contadini che non camminano a frotte, ma uno dietro l'altro silenziosi, anche quando sono padre e figlio, che vanno nella stessa vigna con la zappa sulle spalle. Tutto questo scevera la retorica, come la gramigna dall'erba buona del prato, e mi sento con i miei vizi e le mie virtù, i miei bagagli di errori, i miei palloni colorati di slanci, e la mia borsa, con le cose a cui ho saputo dare compimento.

Schiacciando il piede sulla terra del bricco dei miei cinquant'anni, misuro con sicurezza gli anni che ho buttato alla rinfusa, uno sull'altro, comunque, come stracci. Non sono pochi, li riesco a contare, con il cuore pesante, sulla lavagna della memoria.

 

Questa valle è il mio mare

Le parole di Battistin, che portava per soprannome proprio quello della Sermassa, perché aveva passato la vita tra quelle piante, sulla lunga distesa di boschi che voleva comprare l'americano, mi hanno spinto a salire sopra il cucuzzolo, accanto al vecchio rovere, che da oltre cento anni segna l'inizio di quella immensa distesa di verde sotto il sole.

Leggevo sui libri delle elementari e, quando venivo qui, o sopra il bricco dei Saraceni, mi dicevo: "Il mare deve essere così, sempre uguale a vista d'occhio" e, quando mi sono scontrato con il mare vero e l'ho navigato per notti e giorni nello spasimo delle guerre, avevo sempre nostalgia del mare verde della Sermassa, il mare del mio paese.

E adesso, perché deve arrivare un americano a rubarci quel verde e quel sogno? L'uomo dai capelli rossi vuole realizzare un'iniziativa turistica speculativa nelle Langhe, tra Alba e Bossolasco. Così anche le colline più ricche d'uva e di boschi e di verde e di ossigeno e di salute, le terre rosse e nere più silenziose e solitarie d'Italia verranno infestate dal cemento?

Battistin della Sermassa e tutti i contadini come lui, per veder passare il progresso, devono rinunciare ad essere se stessi cioè contadini, vignaioli e boscaioli?

Scendo tra i castagni della Sermassa a respirare l'aria buona, come il pane di casa, per disperdere la rabbia che mi è saltata agli occhi. Cammino sull'erba.

Lo so, conosco tutte le tempeste del mondo, ci sto dentro e non mi tirerò indietro, ma in questo momento sto con l'usignolo e tremo di tenerezza.