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Pietro Chiodi - Fenoglio scrittore civile

22/02/2022

Pietro Chiodi - Fenoglio scrittore civile

Centenario della nascita di Beppe Fenoglio

 Le aveva sempre pensate, le colline come il naturale teatro del suo amore,
e gli era invece toccato di farci l’ultima cosa immaginabile, la guerra.

(B. Fenoglio Una questione privata)

 

Beppe Fenoglio entrò nell’ospedale delle Molinette di Torino credendosi ormai convalescente da una leggera malattia polmonare; ma il giorno successivo, quando venne condotto nei locali sotterranei, dove si pratica la cobaltoterapia, capì: si rifiutò di sottostare alla cura e, senza battere ciglio, chiese di essere riportato nella sua camera. Ebbe così inizio una breve storia che va conosciuta perché getta luce non solo sull’uomo, ma sullo scrittore.

Nel pomeriggio del giorno in cui venne ricoverato alle Molinette, lo andai a trovare. Eravamo un gruppetto di amici e parenti, ignari della natura effettiva del male. Così scherzammo a lungo, come eravamo soliti fare ad Alba. Nel pomeriggio del giorno dopo, quando mi fu comunicata la terribile notizia, accorsi alle Molinette. In quel momento non c’era nessuno nella camera. Mi feci forza, entrai e ci salutammo come al solito. Il suo comportamento mi rafforzò nella convinzione che non sapesse nulla. Ripresi il discorso del giorno prima sulla sua prossima guarigione e sui luoghi dove avrebbe desiderato trascorrere la convalescenza.

Mi lasciava parlare guardandomi fisso e assentendo; ogni tanto sorrideva amaramente. Capii che sapeva tutto e tacqui. Stavo per piangere. Allora Beppe mi prese una mano con la destra e con la sinistra mi fece segno come volesse dire: su, su non fare tante storie. Gli era stata praticata la tracheotomia e comunicava scrivendo su un notes. Se lo fece dare e aggrottando le sopracciglia, come soleva fare, scrisse sul foglio: “Caro Chiodi, occupati anche tu a suo tempo degli studi di mia figlia Margherita”. Null’altro.

Lo andai a trovare ogni giorno fino alla sua morte, che avvenne la notte del 17 febbraio 1963. Noi tutti che gli fummo vicini possiamo testimoniare che non ebbe mai un attimo né di scoramento né di rivolta. Scrisse diversi biglietti, sempre con la solita calligrafia, ai parenti e agli amici. Diede precise disposizioni per i suoi funerali che volle fossero “laici, senza fiori, senza soste, senza discorsi”. In un biglietto stabilì l’ordine con cui desiderava che i suoi racconti venissero ripubblicati.

Senza versare una lacrima consegnò a sua moglie questo biglietto di addio per la sua piccola Margherita: “Ciao per sempre, Ita mia cara. Ogni mattino della tua via io ti saluterò, figlia mia adorata. Cresci buona e bella, vivi per la mamma e con la mamma, e talvolta rileggi queste righe del tuo papà che ti ha amato tanto e sa di essere sempre in te e per te. Io ti seguirò e proteggerò sempre, bambina mia adorata, e non devi mai pensare che io ti abbia lasciato”.

Perchè Beppe Fenoglio era proprio questo impasto di estrema tenerezza e di rigorosa asprezza. Ma in tutto questo, Alba e le Langhe intervenivano solo come materia lavorata e sofferta. E’ vero che in questa materia Fenoglio si era trovato immerso fin da bambino quando d’estate risaliva le colline per essere riaccolto dagli zii che erano abbarbicati alla Langa, ed è vero che si era ritrovato immerso quando ritornò sulle colline per combattervi la guerra partigiana: ma in ambedue i casi si trattava di un “ritorno”, cioè di un movimento che aveva le sue motivazioni altrove, e che veniva da molto lontano.

Fenoglio inorridiva quando qualcuno lo diceva “epigono di Pavese” o lo considerava scrittore di ispirazione contadina e provinciale. Ma non se la prendeva, non polemizzava, perché quanto si diceva su di lui non lo interessava minimamente. I pochi critici che lo incontrarono dovettero andare a incontrarlo ad Alba. E quando Giovanni Getto, dell’Università di Torino, mi comunicò tutta la sua ammirazione per Fenoglio, ed io, tornato ad Alba, glielo dissi con un certo fervore, egli rimase quasi indifferente, facendomi capire che solo il contrario lo avrebbe stupito. Pochi anni prima, quando fu istituito a Cannelli il Premio Pavese, e tutti lo davano come vincitore, egli non vi concorse. Si trattava di un milione, e Dio sa quanto gli sarebbe stato utile.[1]

Qualcuno ha pensato che si trattasse di timidezza, dovuta al difetto di pronuncia che lo affliggeva, o al naso alla Cirano, piantato su un viso bitorzoluto. Ma era invece l’esasperazione di una “forma di vita”, di uno “stile”. Perché Fenoglio, fin dagli anni del ginnasio ad Aba si era immerso, come un pesce si immerge nell’acqua, nel mondo della letteratura inglese nella vita, nel costume, nella lingua, particolarmente dell’Inghilterra elisabettiana e rivoluzionaria: viveva in questo mondo, fantasticamente, ma fermamente rivissuto per cercarvi la propria “formazione”, in una lontananza metafisica dallo squallido fascismo provinciale che lo circondava. Più volte mi disse che da adolescente aveva spesso sognato di essere un soldato dell’esercito di Cromwell, con la Bibbia nello zaino e il fucile a tracolla.

E di questo bisognerà tenere conto per intendere sia il rigore della sua scrittura che il rigore della sua morte; “rigore” che fu ad un tempo civile e religioso, come fu civile e religiosa la motivazione rispetto al cattolicesimo con cui respinse le pressioni di sposarsi in chiesa.

L’immedesimazione di Fenoglio col mondo dell’Inghilterra rivoluzionaria non era per lui un’evasione da ingenuo provinciale, come qualcuno ha creduto. Fenoglio detestava i letterati di mestiere, ma era sufficientemente scaltro e colto, per non cadere in ingenuità di questo genere. Fenoglio andava alla ricerca di un modello umano, di una “formazione”, di uno stile diverso da quello che il fascismo gli offriva.

Hanno scritto molto di sé coloro che si convertirono all’ultimo momento, dopo lunghi viaggi attraverso questo o quello, ma forse nessuno scriverà mai la storia di non pochi adolescenti che impararono a rivoltarsi sui banchi di scuola, magari leggendo Platone o Tucidide, e portarono innanzi il loro rifiuto fino alla lotta armata e alla morte. Solo il caso decise che Fenoglio non fosse uno di loro.

Fu così che la parola divenne per Fenoglio una cosa seria. Io avevo ventitrè anni quando giunsi ad Alba per insegnare filosofia e storia al liceo classico. Fenoglio ne aveva allora diciotto. Per il ventotto ottobre era obbligatorio svolgere un tema materiale di elogio della marcia su Roma. Nell’ora precedente alla mia, il professore di italiano aveva dettato il solito insulso tema.

Quando io entrai in classe notai subito uno studente nel primo banco con le braccia incrociate che guardava annoiato il foglio bianco. Era Beppe Fenoglio. Lo invitai a scrivere, ma scuoteva la testa. Preoccupato per le conseguenze, feci chiamare il professore di italiano. Era Leonardo Cocito. Parlottarono da complici. Ma non ci fu verso. La pagina rimase bianca.

Fenoglio ebbe sempre uno struggente ricordo per Leonardo Cocito, sia per il coraggio con cui a Carignano il 7 settembre 1944 salì al patibolo per mano tedesca, sia perché soleva, tra il serio e il faceto, predirgli un futuro di grande scrittore.

In alcune pagine scopertamente autobiografiche di Primavera di bellezza, Fenoglio ha rievocato quegli anni di liceo, i suoi compagni, i suoi giovanissimi professori. Forse se il romanzo non fosse stato troncato subito dopo l’8 settembre 1943, il lettore avrebbe potuto cogliere molti segreti del futuro Fenoglio, oltre che nella morte di Cocito, in quella di alcuni giovanissimi studenti, Scagliola allevo ufficiale dei carabinieri che doveva morire col petto squarciato nel primo assalto per la conquista di Alba; e Ballerini, timido collezionista di edizioni rare, fulminato in combattimento a Pocapaglia a fianco di Cocito; Aimo, catturato in combattimento e fatto morire con altri tre compagni sotto le rotaie del trenino di Borgo San Dalmazzo.

Perché tra il Fenoglio filo-inglese dell’adolescenza e il Fenoglio scrittore del dopoguerra c’è di mezzo quella terribile esperienza che fu la guerriglia nel Cuneese. Forse per vivere bisogna dimenticare, ma certamente per capire bisogna ricordare. E’ da questo viaggio all’inferno che fu la guerriglia, che esce il Fenoglio scrittore.

Basta la tenerezza infinita per la sua bambina, bastano le ultime parole scritte per lei, basta il caldo affetto per la sorella e la moglie, la devozione filiale per la madre, il fanciullesco attaccamento che poneva nell’amicizia, la pudica riservatezza del suo discorso quotidiano per delineare una figura di Fenoglio uomo in incredibile contrasto con il mondo di Fenoglio scrittore.

Niente gli era più estraneo della violenza e dell’asprezza. E a nulla era più fedele che al ricordo dei suoi amici fucilati sulle colline o impiccati nelle città. Eppure quando i Ventitrè giorni della città di Alba videro la luce, tutti i suoi vecchi compagni rimasero allibiti di fronte al quadro di violenza cieca e di furore freddo che egli aveva disegnato, e “l’Unità” parlò del libro come di una “cattiva azione”. Ma Fenoglio non si procurò nemmeno la recensione. Invece si divertì moltissimo quando, su “Oggi” La malora” fu biasimata come un libro “di sinistra”.

Allora ci vedevamo ogni giorno al caffè o in casa di amici. Ci eravamo lasciati nel 1940, alla fine dei suoi studi, e ci ritrovammo nel 1945. Fenoglio aveva fatto il partigiano nelle Langhe del Sud, nelle formazioni azzurre. Fungeva da ufficiale di collegamento con la missione inglese e si aggirava tra partigiani cenciosi in una impeccabile divisa da ufficiale inglese. Io combattevo nella Langhe del Nord con Cocito, ma non lo incontrai mai. Allora sua maestà il Re, la missione inglese e il maggiore (Mauri) erano i tre baluardi del suo spirito puritano e i “rossi” un incomprensibile sottoprodotto della guerriglia. Così, quando ci ritrovammo nel 1945, i nostri discorsi erano sempre imbarazzati, anzi, a un certo punto, si interruppero.

Ma tutto questo doveva durare poco. Man mano che il vecchio mondo riemergeva e la Resistenza veniva compressa e svilita, Fenoglio imparò da coloro stessi che continuava a detestare come non vi fosse gran differenza tra partigiani azzurri e rossi.

Nel frattempo aveva dovuto interrompere gli studi all’Università (si era iscritto in Lettere) e cercarsi un impiego. In una impresa vinicola di Alba, dove un centinaio di donne, con mani paonazze, lavava bottiglia dalla mattina alla sera per un salario inferiore al necessario per vivere, Fenoglio cominciò a vedere “i rossi” in una nuova prospettiva. Proprio per questo – e me lo disse lui stesso – una mattina di domenica del giugno 1946, mi venne incontro con grande affetto in piazza Savona ad Alba. Fu così che insieme ci incamminammo per gli amari sentieri della sinistra non comunista.

Debbo confessare che quando uscirono i Ventitrè giorni della città di Alba e poi La malora, non seppi capire. Non mi riusciva di scoprire quale segreto legame unisse l’uomo, che ormai conoscevo da anni e incontravo ogni giorno, con quel suo modo a prima vista così vuoto delle dimensioni umane e degli atteggiamenti che riempivano la sua vita di ogni giorno. E tanto meno capivo il significato del suo impegno linguistico. Parole come “letteratura”, “naturalismo” e “neorealismo”, “dialettismo”, pronunciate da altri, mi impedivano ancora di più di capire.

Ma soprattutto mi impediva di capire il modo in cui Fenoglio aveva trattato la materia partigiana, l’assenza completa nei suoi personaggi proprio di quei “valori” che io sapevo così gelosamente custoditi nella rimmemorazione della sua attiva partecipazione e nel rimpianto per i suoi amici scomparsi. Non riuscivo a capire che cosa legasse la sua autoaffermazione da “raffinato”, in cui la diretta intenzione al classico si accompagnava talvolta a compiacimenti da dandy, e la struttura di violenza pietrificata nella brutalità che uomini e cose prendevano uscendo dalle sue mani.

Insomma commettevo l’errore di cercare una connessione diretta tra l’amico e il suo mondo creativo, di cercare cioè un comodo ponte tra l’uno e l’altro, su cui amichevolmente contrabbandare, all’insegna dell’“espressione” idealistica o del “riflesso” materialistico, tutto il bagaglio delle spiegazioni abituali. D’altra parte è difficile prendere le giuste distanze nella valutazione dell’opera di un amico fraterno col quale si gioca a carte, gomito a gomito, o che sa tutto, anche le più incredibili minuzie, della storia dello sport.

Ma la morte ristabilisce le distanze e lascia essere soltanto l’essenziale e rileggendo oggi i primi scritti alla luce degli ultimi, e raffrontando l’intera sua opera all’intera sua vita, da quando lo incontrai la prima volta ostinato nel suo rifiuto di servire a quando lo vidi lentamente morire senza nulla concedere alla debolezza corporea, credo di poter dire quale fosse la mediazione essenziale e segreta tra l’uomo e lo scrittore. Perché in Fenoglio, come in ogni autentico scrittore, questa mediazione è “in opera”, ed essa consiste – non nell’immediatezza espressiva o riflessiva, - il destino della sua vita e della sua arte. Questa mediazione ha preso in Fenoglio la forma dell’interiorizzazione, della “necessità” (nel senso di “necessitando” non di “necessitas”).

Autoeducatosi al culto rigoroso della libertà e della gentilezza, che ne costituisce l’estrinsecazione sociale, Fenoglio si è trovato brutalmente posto dinanzi all’alternativa di rinunciare di colpo all’intiero significato della sua scelta originaria, o di andare fino in fondo lungo la linea di rigore di questa scelta, assumendone integralmente le dimensioni di “necessitudo”.

Nel primo caso sarebbe divenuto un velleitario, un “letterato”, e avrebbe dato alla sua formazione così eccentrica il significato di un’evasione provinciale; ma nel secondo caso avrebbe dovuto assumere sopra di sé il destino di una tensione terribile tra ciò che voleva essere e ciò che avrebbe dovuto fare per esserlo. “Ciò che doveva fare” nel senso di ciò che non poteva non fare, di ciò che doveva assumere necessariamente. Da questo scontro tra una vocazione alla gentilezza e alla poesia, e la brutalità della situazione da assumersi per restare fedele a questa situazione prende “forma” e direzione l’impegno artistico di Fenoglio.

Ma in questo caso il “racconto” non poteva avere per lui il significato della liberazione. Della catarsi. Raccontare divenne invece rivivere e far-presente, far-vedere, denunciare. Fenoglio fu, in ultima analisi, “scrittore civile”, e la denuncia prese in lui la forma ancestrale del far-vedere: si tratta di far-vedere che è un guardare con stupore, orrore e commiserazione, il tutto concentrato – e non diluito – nel “semplice” guardare. Ma la “semplicità” di questo “semplice” è la tensione composta e quasi irrilevabile del tragico.

Fenoglio fu uno scrittore civile perché fece vedere il tragico come interiorizzazione della “necessitudo”, cioè come destino di una generazione che dovette assumersi, incolpevole, una inesorabile eredità di colpa. Questa interiorizzazione tragica prende la forma del “ritorno” di Fenoglio alla Langa, cioè del ritorno, dopo l’educazione letteraria, al fango antico delle colline, impastato da secoli di sudore e ora di sangue.

L’ultima cosa che egli ha lasciato, lo stupendo troncone di romanzo Una questione privata[2], riassume e suggella, come in un brusco congedo, il senso del suo destino di uomo e di scrittore. Inseguendo un sogno di gentile e romantica tenerezza rimmemorativa, il protagonista è gettato di colpo nella “necessitudine” di interiorizzare lo stupito orrore della morte data e subìta.

Ma il vettore tensionale della vicenda non è la violenza, bensì la fedeltà alla gentilezza e all’amore. La violenza è imposta; non certo nel senso che sia vilmente subìta, bensì in quello della sua virile assunzione in quell’intermondo commisto di volere e non-volere che definisce il luogo del tragico e, dopo la catastrofe finale, l’ampio cerchio delle colline, avvolte in veli di nebbia, in un coro di stupore e silenzio.

 

 

 

Il testo di Pietro Chiodi fu pubblicato la prima volta in “La Cultura”, 1965 e  ripubblicato in I quaderni Nuovi Incontri n. 4 Fenoglio inedito, Asti, 1968.

 

 

 



[1] Il premio, voluto da Davide Lajolo, fu vinto da Lorenzo Mondo con la sua tesi di laurea su Pavese e fu Mondo nel 1978 a editare la prima edizione de Il partigiano Johnny di Fenoglio rielaborando l’originale inedito. (n.d.r.)

[2] Al momento di questo scritto non era ancoa stato edito Il partigiano Johnny, pubblicato nl 1968. (n.d.r.)

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