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Discorso del 25 aprile

12/02/2009

Discorso del 25 aprile

Laurana Lajolo

Ringrazio del prestigioso invito che mi è stato rivolto e saluto tutti i presenti, partigiani, cittadini, autorità, il rappresentante della Provincia medaglia d’oro della Resistenza.

Voglio cominciare queste mie riflessioni con voi ricordando i giovani che hanno fatto la Resistenza, partendo dall’ultimo pensiero di un partigiano alla sua fidanzata: “Ti invio queste mie ultime rose rosse che si muteranno in tante gocce di sangue e ricordati che io affronto la morte con serenità”. Quel giovane si chiamava Remo Dovano, nome di battaglia Donovan, operaio alla Way Assauto. Viene arrestato alla vigilia del primo maggio 1944 mentre affigge manifestini contro la guerra nella zona di S. Pietro.

Viene torturato dai militi fascisti: prima la tortura della sete, poi è tenuto sdraiato su un tavolaccio per 36 ore con la spina dorsale contro lo spigolo e la testa in giù con un peso alle gambe. Dopo tre giorni, ridotto a non reggersi più in piedi, viene messo a confronto con i suoi compagni Diego Carosso, Valerio Fresia, Pierluigi Miroglio. Dice che non li conosce e loro sono liberati e continuano la lotta.

Lui attende l’esecuzione componendo una poesia e scrivendo l’ultima lettera alla sua Rina. Viene fucilato all’alba del 4 maggio ‘44 al poligono di tiro di Sessant. Ha appena compiuto 24 anni. 

Il giovane tenente Piero Bigatti è uno dei primi a resistere e a sacrificarsi per la dignità della patria con tutta la Divisione Acqui a Cefalonia.

Altri soldati di stanza al Sud come Oddino Bo continuano a combattere con l’esercito regio a fianco degli Alleati.

Teresio Deorsola, contadino di Capriglio, è soldato di leva e all’8 settembre ‘43 si trova con la IV Armata dell’esercito italiano che occupa la parte meridionale della Francia. E’  catturato dai tedeschi insieme al suo reparto rimasto senza ordini.

La sua resistenza la fa in un campo di internamento militare in Germania. Non sa nulla di politica, ma rifiuta di aderire alla Repubblica di Salò, anche se vorrebbe dire tornare libero. Per gli stenti si ammala di tubercolosi e muore a 24 anni, pochi mesi dopo il ritorno a casa.

Dopo il rastrellamento nazifascista del 2 dicembre ‘44 molti sono i giovani catturati come Vittorio Benzi, 17 anni di Vinchio che muore di stenti a Mauthausen o come Renato Fracassi di Cerro e Natalino Pia di Montegrosso, che invece riescono a sopravvivere alle sevizie del Lager.

Enrica Jona, insegnante di trent’anni deportata ad Auschwitz con i genitori perché ebrea, ricordando con un dolore senza fine l’assurda ferocia dello sterminio del suo popolo, si è sempre rifiutata di perdonare i carnefici.

Marisa e Pini Ombra, con una famiglia tutta partigiana, diventano staffette tra Langhe e Monferrato a diciannove e a diciassette anni, come Nuccia Reggio,  sorella del partigiano Gatto. Non hanno paura di muoversi di notte e di attraversare i posti di blocco. Si sentono responsabili della libertà di tutti. 

E così altre ragazze, Olga, Ines, Pina, Kira, Breda, figlie, fidanzate, mogli di partigiani, che affrontano lo stesso pericolo del loro familiare.

Sono quelle ragazze le artefici del riconoscimento del voto alle donne, fino ad allora escluse dai diritti politici.

Quei giovani hanno fatto la scelta partigiana non sempre per precise convinzioni ideologiche, ma prima di tutto per far finire tutte le guerre e difendere la propria famiglia, il proprio paese contro l’esercito occupante, contro le scorribande fasciste, contro le rappresaglie che terrorizzavano la popolazione.

Che cosa possono ancora significare le storie di quei giovani per i nostri ragazzi che vivono nella società del presente priva di memoria, nella società del successo e del denaro, ma anche dell’incertezza, della precarietà e dell’individualismo?

Quei valori forti sembrano oggi latenti, frammentati dai processi di massificazione e di omologazione, eppure, nelle fasi critiche della vita del Paese sono proprio quei valori forti che emergono nelle coscienze di chi si sente obbligato a fare delle scelte oneste, anche se scomode, a volte persino rischiose.

Chi poteva ipotizzare che nel ’43, dopo venti anni di dittatura, che aveva organizzato il suo consenso abolendo le libertà individuali e politiche, scoppiasse la Resistenza di popolo? Con le sconfitte italiane della seconda guerra mondiale tutto sembrava crollare.

Invece, proprio nel passaggio storico più drammatico, si è formata spontaneamente un’aggregazione dal basso, che ha saputo reagire e che ha prefigurato una vittoria che sembrava impossibile.

Gli antifascisti rientrati dall’esilio o usciti dal carcere o venuti allo scoperto nei luoghi di lavoro si sono incontrati con i giovani cresciuti sotto la dittatura con l’immagine dell’uomo forte, che, lasciati senza più ordini, senza più generali, senza più duce, senza più stato, prendono in mano il loro destino.  Combattono anche per coloro che rimangono in attesa degli eventi.

C’è anche una resistenza civile, quella della popolazione: le madri che aiutano i soldati sbandati sperando che anche il loro figlio sia aiutato da qualcuno in Russia, in Francia, in Jugoslavia, in Africa, dove magari è finito prigioniero degli alleati o dei tedeschi; quella dei contadini che, nonostante le intimidazioni, non denunciano i partigiani.

Anche il clero fa la sua parte, qualche sacerdote si schiera con i partigiani, la maggioranza dei parroci cerca di proteggere le comunità dalle due parti in conflitto. Il vescovo offre la sua opera di mediazione tra il comando partigiano e quello tedesco per lo scambio di prigionieri e per  la liberazione di Asti.

Nell’inverno del 1943-44  molti giovani contadini della nostra terra non si presentano alla chiamata alle armi della Repubblica sociale, rischiando la pena di morte, e entrano nelle bande partigiane che via via si organizzano prima nella Langa e poi nel Monferrato. Assumono nomi di battaglia mitici o di fantasia come Nestore, Tarzan, Fulmine, Ulisse, Gatto, Primo, Poli, Pirata, Achille, Folgore, Perez, Costa, Cobra, Enea, Tigre, Ken, Mauri, Pantera, Spada e  difendono la loro terra contro i repubblichini e l’esercito più forte del mondo.

Molti muoiono negli scontri come Oliaro, medaglio d’oro a Moncalvo, o fucilati come Rino Rossino, Medaglia d’oro, a Cisterna, come l’intera famiglia Fornasero: padre, figlia e figlio a Berzano S. Pietro, come i fratelli Olivero a Felizzano, o impiccati ai balconi come Luigi Capriolo a Villafranca. E diventano eroi per i loro compagni che continuano la lotta.

La banda partigiana è una straordinaria scuola di vita per quei giovani, un’esperienza di democrazia diretta dove il capo  è scelto tra quelli che hanno maggiore esperienza e coraggio. Nella brigata i partigiani diventano consapevoli  che le singole azioni coinvolgono tutti e che gli errori di uno solo possono compromettere il destino dei compagni.

Il legame di solidarietà partigiana rimane per sempre, come ha detto in modo mirabile Beppe Fenoglio:

“Partigiano come poeta è parola assoluta, rigettante ogni gradualità e partigiano si rimane, infallentemente, tutta la vita”.

Nel travaglio della guerra civile, quando la violenza diventa la risposta necessaria all’aggressione e alla crudeltà del nemico la brigata stabilisce le regole della giustizia partigiana e dell’autodisciplina e cerca la collaborazione con i contadini, che nella nostra terra diventano il sostegno indispensabile alla guerriglia:  una minestra, un pezzo di pane, la stalla calda d’inverno, una tana dove sfuggire al nemico.

Non mancano le differenze tra le varie formazioni combattenti sia per i riferimenti politici che per gli obiettivi da perseguire, ma nel momento dello scontro più aspro, come a Bruno e a Bergamasco nell’ottobre del ’44, tutte le formazioni agiscono insieme contro il nemico, che ha mezzi ben superiori, ma che  è ricacciato indietro dall’abilità militare dei comandanti e dalla generosità dei combattenti.

Il nemico è spesso un altro giovane, che si è arruolato per convinzione o per ingenuità o perché casualmente si è trovato da quella parte. Alcuni dopo qualche tempo disertano dalle brigate nere, altri invece obbediscono agli ordini di torturare e fucilare i partigiani, di  compiere rappresaglie contro la popolazione civile, di organizzare la deportazione degli ebrei nei Lager. Molti muoiono nella disperazione di vedere in faccia la sconfitta storica del fascismo e del nazismo.

Per questo avere pietà dei morti dei due schieramenti non può significare l’equiparazione delle azioni e delle scelte come intende fare la proposta di legge di istituire l’ordine tricolore per i combattenti della Rsi, riconoscendo il valore patriottico a coloro che hanno sostenuto un’ideologia di guerra, di violenza, di politica razzista.

Perché oggi quei disvalori dovrebbero essere sdoganati o giustificati?

La Resistenza è stata anche un laboratorio politico di confronto e di alleanze tra comunisti, socialisti, azionisti, democristiani, repubblicani, liberali, che, provenendo da concezioni politiche diverse, hanno saputo gestire la dialettica interna ai comitati di liberazione provinciali e a far riconoscere dagli Alleati il Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia e il Corpo Volontari della libertà, riscattando l’Italia dal passato fascista e affermando una nuova  dignità della patria.

Prefigurando il nuovo Stato già nell’estate-autunno del ‘44 si costituiscono nelle zone liberate le repubbliche partigiane. Nell’Astigiano nasce la Giunta popolare di governo di Nizza Monferrato, città medaglia d’argento della Resistenza.

40 comuni fanno parte della Repubblica, che dura poco più di un mese, ma che riesce a prendere importanti deliberazioni per consentire le prime forme di organizzazione civile, lasciar fare ai contadini la vendemmia e anche prefigurare il tempo di pace con qualche festa popolare.

E sempre nel fuoco dei combattimenti si ragiona sulle future responsabilità di partecipazione democratica, come scrive Giacomo Ulivi, 19 anni, studente di legge, membro del Comitato di liberazione di Parma, poco prima di essere fucilato sulla piazza Grande di Modena il 10 novembre 1944:

“Quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi per iniziare una laboriosa e quieta vita dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà: nel desiderio invincibile di “quiete”, anche se laboriosa, è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il segno di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica.

E’ il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione o di educazione negativa ventennale, che martellando da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi (…).

Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo ci dicevano: quello che facevano lo vediamo ora che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – siamo scaraventati dagli eventi.

Al di là di ogni retorica constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui è caduto il nostro paese”.

Va detto che la classe politica antifascista ha fondato lo Stato democratico senza forme di repressione e di esclusione anche nei confronti di coloro che non hanno condiviso gli ideali democratici. Già nel giugno 1946, subito dopo il referendum per la repubblica, il governo, formato da tutti i partiti antifascisti, emana l’amnistia per pacificare il paese, per ricomporre l’unità nazionale e uscire dall’emergenza, anche se questo significa che nella burocrazia come nella magistratura, nelle forze dell’ordine come nella scuola continuano le vecchie carriere. 

Molti partigiani vivono con delusione la normalizzazione e le difficoltà di reinserimento nel lavoro, ma rimangono fermi custodi della nascente democrazia.

Nel ’47, nonostante l’esclusione dal governo dei partiti comunista e socialista e l’inasprimento dei conflitti politici e sociali nel clima della guerra fredda,  il patto antifascista continua ad essere il riferimento fondamentale per scrivere la Costituzione.

L’Assemblea Costituente ha, infatti, saputo fare un’alta mediazione tra le diverse culture politiche antifasciste e ha elaborato una Carta costituzionale volutamente rigida per superare i pericoli di ritorni autoritari, equilibrata nella divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, fondata sul pluralismo, sulla laicità dello Stato e sulla partecipazione popolare.

Una carta molto avanzata, scritta con un linguaggio preciso e limpido a dimostrazione dell’alto livello giuridico, etico e politico dei padri costituenti. Tanto che alcuni principi della Costituzione italiana sono stati ripresi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e sono diventati riferimenti significativi nella costruzione dell’unità europea.

Voglio soltanto citare due articoli che connotano tutto lo spirito della Carta.

Dopo il massacro mondiale di soldati e di popolazione civile, l’art. 11 della Costituzione “L’Italia ripudia la guerra” esprime l’altissima aspirazione alla pace e l’art. 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali e sociali” è il baluardo contro ogni forma di discriminazione e serve ancora oggi nel crogiolo di conflitti sociali, religiosi, culturali.

Le norme costituzionali sono state il riferimento nella storia repubblicana per la lunga battaglia per i diritti: il diritto al lavoro, allo studio, alla salute, alla libertà di stampa, alle libertà personali; il riconoscimento dell’uguaglianza tra uomini e donne,  dei nuovi diritti di cittadinanza, il rispetto delle minoranze e della diversità, il rifiuto di ogni forma di razzismo.

La Costituzione è il tessuto morale della società, come sintetizza simbolicamente lo scrittore Leonardo Sciascia: “Io sento la Costituzione della repubblica Italiana come l’oggettivazione della mia coscienza, come la carta che la mia coscienza non può né travalicare né tradire e tanto meno  possono travalicarla e tradirla le mie azioni”.

Oggi viviamo in un momento di accesa discussione politica e culturale sulle riforme istituzionali, sui poteri dell’esecutivo, sulla rappresentatività del Parlamento, sull’autonomia della magistratura, sulla libertà di informazione. E’ un dibattito molto importante e che proprio per questo  va condotto in un clima  di serietà e di dignità, nel rispetto del pluralismo e dei fondamenti della nostra democrazia, senza discriminazioni e intolleranze.

Si sta mettendo mano, teoricamente e praticamente, a punti altamente sensibili della Carta. I problemi sono complicati e non vanno percorse procedure di pericolose semplificazioni di ingegneria istituzionale o di volontà politiche parziali.

Oggi qual è il progetto politico: quello di una democrazia partecipativa, rappresentativa, indiretta, popolare, plebiscitaria?

La nostra democrazia è una macchina molto complessa, delicata e fragile, non bisogna farla inceppare. Va esercitata ogni giorno nella parte dei diritti e dei doveri e non considerata un involucro formale.

La democrazia, come ha detto Norberto Bobbio, consiste nel conciliare libertà, giustizia, uguaglianza e solidarietà, un’operazione difficile che è riuscita nei principi costituzionali e che deve continuare a rappresentare la coesione ideale del Paese.

E in questo momento di grande difficoltà economica e sociale a livello locale e globale, l’Italia avrebbe bisogno di processi formativi forti, dalla scuola pubblica al lavoro, a progetti per i giovani a cui mancano solide prospettive, perché, privando di futuro i giovani, l’intera società rischia di perdere la capacità di progredire.

Ma manteniamo la speranza e la fiducia, perché i valori della Resistenza di libertà, di moralità, di giustizia, di responsabilità, di cittadinanza sono il patrimonio ideale di chi si oppone alla criminalità organizzata, degli studenti che difendono la scuola pubblica, dei ragazzi che coltivano i terreni requisiti alla mafia, delle donne che chiedono il rispetto dei loro diritti, dei lavoratori che lottano per il posto di lavoro, di coloro che difendono l’ambiente dalle speculazioni, dei volontari che aiutano le persone in  difficoltà, i migranti, gli emarginati, di tutti coloro che si impegnano per il bene comune.

La Resistenza è stata un episodio brevissimo nella storia italiana, durata troppo poco per cambiare davvero il mondo, come pensavano i partigiani nell’entusiasmo della lotta, ma è stata la sfida morale e politica contro la guerra, è stata la libertà di immaginare il futuro.

Molti dei suoi messaggi e dei suoi ideali sono stati disattesi e sono rimasti utopia, ma i suoi valori sono stati la linfa della nostra Costituzione e della democrazia repubblicana. Tanto che quando si è voluto modificare il testo costituzionale si è cominciato a delegittimare e a ridimensionare il significato storico della lotta di liberazione.

Per questo la Resistenza è l’origine della memoria della nostra democrazia e per questo è inalienabile e irrinunciabile. Non è stata l’azione armata fine a se stessa, è il dna di tutti i cittadini italiani, sia dei vincitori che dei vinti.

La festa del 25 aprile è la festa della nostra libertà e della nostra democrazia.